3½ × 7½
Se la società non ha forma, come possono gli architetti costruirne la controforma?
A. van Eyck, in A. Smithson (a cura di), Team 10 Primer 1953–62, in Architectural Design, dicembre 1962
Abbiamo interpretato il tema della residenza collettiva come la costruzione di un’infrastruttura domestica, in cui è il contenuto a determinare il contenitore e non viceversa. L’esperienza diretta dell’abitare diventa quindi il principio della trasformazione – non una conseguenza del completamento dell’isolato Sant’Eligio inteso come tema compositivo o paesaggistico estraneo alle dinamiche sociali, politiche ed economiche che governano il tessuto urbano. La città storica si è sempre costruita a partire da esigenze concrete, che solo in secondo luogo assumono una rappresentazione formale adattandosi al contesto.
L’area di progetto è singolare per il suo rapporto con le soglie storiche dell’evoluzione di Torino. Si trova infatti a cavallo di quello che era il tracciato del terzo ampliamento delle mura cittadine, in direzione nord-ovest, avvenuto tra il 1717 e il 1729 dopo l’assedio francese del 1706 e prima dell’occupazione napoleonica che porterà al loro definitivo smantellamento, completato all’inizio del XIX secolo.
La morfologia dell’isolato Sant’Eligio – un isolato se vogliamo inventato dall’estensione pedissequa della griglia quadrata oltre la cinta muraria – è visibilmente determinata da questa sua secolare condizione di soglia tra interno ed esterno. Se nel triangolo sud-est riconosciamo la città compatta, la sua porzione settentrionale è caratterizzata da una più complessa stratificazione temporale e tipologica, la cui ultima evoluzione risale agli anni ’80 del XX secolo, quando vengono demoliti i fabbricati affacciati su via Piave.
Il nostro intervento si confronta proprio con quest’ultima parte dell’isolato, scegliendo da un lato di conservare la memoria della città storica attraverso la sua traccia fisica – e contemporaneamente di porsi al di fuori delle mura come una macchina d’assedio, una sfida ai luoghi comuni che ancora sostengono un rapporto mimetico con il passato.
La forza delle architetture in cui riconosciamo l’identità delle nostre città sta nel loro sopravvivere alla funzione originaria, nel diventare infrastrutture per la vita urbana, svincolate dall’epoca o dall’uso per cui sono nate. Abbiamo limitato la specializzazione funzionale degli spazi, cercando quella stessa generalità che si può trovare nei palazzi del XIX secolo, una tipologia tanto diffusa quanto sottovalutata come modello per il futuro. Un edificio è veramente sostenibile solo quando non facilmente suscettibile di obsolescenza.
Tra la strada e lo spazio più privato della residenza sono previsti numerosi gradi di separazione, spazi semipubblici che fungono da mediatori tra diverse modalità dell’abitare. È ancora una volta la città storica – con i suoi vicoli, portici, cortili – a dimostrare come questi luoghi favoriscano una fruizione completa dello spazio pubblico e di conseguenza stimolino la socialità, prevenendo alienazione, isolamento e abbandono.
Dalla quota stradale è possibile accedere a due sistemi di circolazione verticale differenti, non comunicanti tra loro, uno dal carattere privato e uno pubblico. Il primo è costituito dai tre vani scala interni che, insieme agli ascensori, distribuiscono il flusso da e verso gli appartamenti. Il secondo occupa invece il fronte su via Piave, dalla quale è direttamente accessibile: quattro scale esterne permettono l’utilizzo dei ballatoi sul prospetto nord-ovest sia da parte degli inquilini che dei passanti, rendendo tutti i livelli fuori terra potenzialmente compatibili con funzioni pubbliche.
La domanda che ci poniamo è dunque la stessa di van Eyck: come possiamo progettare la controforma che la società ci chiede? In questo caso abbiamo scelto un approccio debole, riducendo al minimo le scelte progettuali per demandarle a chi solitamente le subisce, e rimuovendo dove possibile qualunque ostacolo di natura pratica alle trasformazioni future. Gli appartamenti proposti non sono contenitori su misura per nuclei familiari arbitrariamente definiti, ma semplicemente la giustapposizione di moduli di lato 3,5 × 7,5 metri, spazio isotropo e non connotato che saranno gli abitanti stessi a completare secondo le proprie reali necessità.
La pianta è facilmente riconfigurabile spostando gli arredi, con opere murarie e impiantistiche minime, grazie alla pianificazione tipologica e al posizionamento di tutti gli impianti lungo un unico vano tecnico esterno agli appartamenti, oltre che alla reiterazione degli elementi strutturali e delle aperture.
Sarà possibile in futuro modificare la taglia degli appartamenti conservando le partizioni e gli ingressi, semplicemente riassegnando i moduli dall’uno all’altro – nonché convertire le residenze in spazi commerciali o di servizio, permettendo all’edificio di assecondare le esigenze variabili della città nel tempo con ridotti investimenti economici, in modo da estenderne al massimo il ciclo di vita.
Today the house of equal-sized rooms is a different way of approaching the flexibility problem from its origin. The house of equal-sized rooms is not “flexible”, but it lets us put our own flexibility to the test by adapting to it. The flexibility in this case is determined by its ambiguity, a useful ambiguity as advocated by Robert Venturi too many years ago now in Complexity and contradiction in architecture. It is that ambiguity, stemming from the relative homogeneity of the rooms, that makes our adaptation to the house possible.
X. Monteys, La casa de habitaciones iguales, in Quaderns d’arquitectura i urbanisme, n. 265, 2013, p. 42–45
24.07
Cooperative housing for AAA architetticercasi 2024
Single-stage open competition
Location: via Piave, Turin, Italy
Year: 2024
Site area: 5450 m²
Floor area: 8230 m²
Construction cost: 8,477,835 €
Status: unbuilt
Client: Confcooperative, Fondosviluppo s.p.a.
Design, visualisation, text: Valerio Poltrini
Collaborators: Camilla Dorin, Sara Parisi